È facile credere in un Dio forte che interviene supportando la volontà dei suoi “fedeli” pronti a dichiararsi delusi se non è così come lo si vorrebbe. Credere non è un affidamento cieco che a volte arriva a sfiorare il fanatismo ma accogliere una sfida
Le Domeniche che hanno accompagnato la fine dello scordo Anno Liturgico e l’inizio dell’attuale, sono state tutte centrate sul tema della parusia, degli ultimi tempi (escatologia) con un linguaggio messianico-apocalittico che alla nostra attualità suona duro, lontano e difficile da comprendere. In sintesi il richiamo che è stato posto mette l’accento sul fatto che alla venuta del Signore ciò che verrà alla luce è, non tanto quello che si è fatto, quanto il come abbiamo vissuto il presente. Prendono allora senso quei tre imperativi “vegliate”, “cercare di capire”, “siate pronti” che si sono richiamati più volte e che chiedono di vivere il presente alzando lo sguardo per gettarlo oltre l’orizzonte spesso ristretto della nostra realtà perché il futuro va coscientemente costruito nell’oggi.
A questi richiami di Giovanni il Precursore (in Matteo è questa la sua caratteristica più che il Battista), lunedì scorso si è affiancata la figura di Maria che ci ha presentato come l’obbedienza non sia affatto un atteggiamento passivo e chiuso, in realtà l’obbedienza cristiana è sempre dinamica. Accettando gli eventi, permette che una situazione di scandalo si trasformi in un segno di libertà dalla paura, dalla volontà di controllo sulla propria vita, dal timore del nuovo. È una vera e propria ri-nascita per Maria che “muore” a se stessa per risorgere a servizio della Parola di Dio ed è in questo orizzonte di vita-morte-risurrezione che si apre l’attesa del Veniente.
Oggi ritroviamo Giovanni ma il suo dire che abbiamo conosciuto sicuro, forte, autorevole ora che è in prigione si fa debole, incerto, insicuro: la voce che gridava nel deserto diviene voce piena di dubbi che domanda ma che in ogni caso si affida a Gesù del quale ha riconosciuto una autorevolezza superiore alla sua. Oggi ci appare come tutti gli esseri umani con perplessità, inquietudini, tormenti interiori. Si trovò di fronte alla necessità di realizzare prima di tutti lui quella conversione che chiedeva agli altri a riguardo della figura dell’Atteso. Il Precursore non ha insegnato solo a parole, ma ha mostrato, con la vita, come bisogna essere sempre pronti a rimettere in causa le proprie sicurezze quando ci si confronta con la novità di Dio. Solo chi, come lui, è alla ricerca appassionata della verità è preparato ad incontrarla.
È facile credere in un Dio forte che interviene supportando la volontà dei suoi “fedeli” pronti a dichiararsi delusi se non è così come lo si vorrebbe. Credere non è un affidamento cieco che a volte arriva a sfiorare il fanatismo ma accogliere la sfida fra le perplessità che il vissuto può porre, lasciare che questo ponga le sue domande, avere la capacità di rimettere tutto in gioco cercando le risposte oltre lo scontato, il futuro rassicurante del già conosciuto. Questo lo si è visto anche nella figura di Maria nella solennità di lunedì scorso.
In quel periodo erano almeno 5 i tipi di Messia con diverse caratteristiche che venivano attese: da quelli esclusivamente politici, a quelli con caratteristiche unicamente religiose, a quelli che avrebbero ripristinato tradizioni cadute nel dimenticatoio; tutte caratteristiche e tinte più o meno forti di tipo apocalittico. Ma nessuna di queste si è avvicina alla figura messianica di Gesù: lui non condanna i peccatori, raccomanda di non spegnere il lucignolo fumigante e suggerisce di prendersi cura della “canna incrinata”. Non distrugge nulla, recupera e aggiusta ciò che è rovinato cambiando i cuori, sostiene chi non ha più speranza e si avvicina a tutti, anche ai lebbrosi; non si arrende nemmeno davanti alla morte.
Questo interroga Giovanni che attendeva un giudice rigoroso e gli manda a chiedere se è lui l’Atteso ed è invitato a prendere atto di sei nuove realtà: la guarigione dei ciechi, dei sordi, dei lebbrosi, degli storpi, la risurrezione dei morti e l’annuncio del vangelo ai poveri. Sono tutti segni di salvezza, nessuno di condanna e il numero sei ricorda i giorni della creazione: il mondo nuovo è dunque sorto.
Gesù cita Isaia 61 ma tralasciando “la scarcerazione dei prigionieri”. C’è chi legge che anche in questo Giovanni “precede” Gesù che nel Getsemani si affida a Dio che non esaudisce la sua preghiera di essere “liberato” da quell’ora, che passi da lui quel calice (Mt 26,39; Mc 14,35) e Giovanni nel carcere troverà la sua morte.
La seconda parte dell’Evangelo sono domande con le quali Gesù sferza la folla e anche noi. Per tre volte chiede “Che cosa siete andati a vedere nel deserto?” uno spettacolo così come Erode che desiderava vedere Gesù sperando di poter assistere a un miracolo? Se Giovanni era (e lo era) un profeta doveva essere più che visto ascoltato e soprattutto obbedito.
È significativa l’aggiunta finale: “Il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui” (v. 11). Gesù non intende stabilire una graduatoria basata sulla santità e sulla perfezione personale, ma chi appartiene al regno dei cieli è in grado di vedere più lontano del Battista. Perché chi sa accogliere il volto di un Dio che è venuto incontro all’uomo per perdonarlo, accoglierlo, amarlo comunque, è entrato in una prospettiva nuova, nella prospettiva di Dio, nel suo Regno già qui ed ora.
(BiGio)
