Non è un caso che il Regno di Dio non venga mai presentato con simboli religiosi o azioni liturgiche di adorazione o chissà cos’altro ma sempre con esempi conviviali, con una tavola imbandita di grasse vivande e vini succulenti
Domenica scorsa la Liturgia, seguendo lo sviluppo dell’Evangelo di Luca, ci ha fatto imbattere in un cambio di linguaggio di Gesù che, all’inizio forse ci è parso dissonante con l’immagine fino a quel momento ci si era fatti di Lui. Ci è apparso un Signore oppresso dall’attesa di un fuoco nel quale essere immerso (battezzato), un linguaggio duro quasi violento che prometteva conflitti, divisioni, l’opposto di ogni speranza dell’avvento di pace nelle realtà irte di difficoltà.
Un linguaggio si è detto comune nella sua epoca ma che Gesù usava riferendolo alla sua vita: l’attesa dell’avvento dello Spirito e del suo essere immerso nella morte violenta che lo attendeva e il desiderio di abbreviarne i tempi. Evento che sarebbe stato come una spada a doppia lama, capace di penetrare nel profondo delle persone mettendole in crisi, spingendole a discernere, a scegliere da che parte stare, come vivere optando tra l’essere con lo Spirito di fuoco datori di vita o rimanendo agganciati al vecchio mondo corrotto dall’egoismo.
Anche oggi Gesù continua con un linguaggio nel quale compaiono minacce e condanne: c’è una porta che si sta chiudendo ed oramai è ridotta ad una fessura: è una porta oramai “stretta” verso la quale è necessario affrettarsi per riuscire ad entrare. Quando sarà chiusa si rimarrà fuori dove “ci sarà pianto e stridore di denti” mente all’interno, attorno alla tavola imbandita del Regno del Padre, ci saranno genti di ogni razza, popolo, nazione provenienti dai quattro punti cardinali.
Dov’è quel Gesù che, sempre in Luca, suggeriva di invitare al banchetto “storpi, zoppi e ciechi”; non assomiglia al medico venuto per curare i malati, né al pastore che si intenerisce di fronte alla pecorella smarrita, né all’amico che si alza di notte a dare il pane come nell’Evangelo di Domenica 27 luglio, quella del Padre Nostro. Pare abbia sentimenti diversi da quelli del padre del figlio prodigo, ed è strano anche il suo consiglio “sforzatevi di entrare per la porta stretta”: sembra un invito a preoccuparsi solo per la propria salvezza.
Gesù risponde così ad una domanda che gli viene fatta da “un tale … sono pochi quelli che si salvano?” ed è una domanda che percorre e inquieta costantemente i credenti e le comunità che purtroppo è stata spesso usata per impaurire, non infrequentemente posta come minaccia per il controllo sociale fino a tempi recenti e che qualcuno ancora usa.
Quel “tale” anonimo ci rappresenta tutti ma la domanda non è ben posta e infatti Gesù non risponde direttamente: se avesse risposto sì avrebbe potuto provocare scoramento; al contrario false sicurezze. Gli preme piuttosto chiarire il “come” si entra nel Regno di Dio che è già presente in mezzo a noi e non chiede di fare chissà quali pratiche religiose o contorsioni spirituali.
Lo si deduce facilmente dal dialogo tra il Signore e chi è rimasto fuori che chiedono di entrare. Sono persone che hanno familiarità con lui e quando si sentono dire che non li conosce insistono dicendo ma come “abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza ... hai insegnato nelle nostre piazze”. La risposta è durissima “Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. C’è da rimanere stupefatti: partecipare alla sua mensa, ascoltare la sua parola è “essere operatori di iniquità”?
Qui c’è un importante materiale di riflessione per tutti i cristiani e le loro comunità, per coloro che sono assidui all’Eucaristia domenicale e all’ascolto della Parola.
La domanda che Gesù qui pone è: “siete sicuri che sia sufficiente questo?”. Quanti, partecipando all’Eucaristia che li rende il “corpo di Cristo”, sono poi capaci di “farsi pane” per gli altri, di fare della loro esistenza alimento di vita per gli altri? Quanti hanno ascoltato il suo insegnamento e questo ha trasformato la loro esistenza? Gesù desidera dirci che il Padre alla fine non ci chiederà se abbiamo creduto in lui, ma se abbiamo amato come lui ama. Il rapporto che abbiamo con Dio è diventato azione di amore, misericordia, compassione, perdono, condivisione fraterna? È questa la domanda che ci viene posta e, attenzione, per fare quelle “cose” non serve essere battezzati, credenti, frequentanti: basta essere uomini e di ogni dove.
L’avviso che ci viene dato è di non pensare di avere dei diritti per la nostra religiosità se non si traduce in azioni di amore perché alla fine potremmo trovarci tra gli esclusi. Allora si comprende perchè non è un caso che il Regno di Dio non venga mai presentato con simboli religiosi o azioni liturgiche di adorazione o chissà cos’altro ma sempre con esempi conviviali, con una tavola imbandita di grasse vivande e vini succulenti (Is 55,1-2).
Alla fine c’è un cambio di termini: i pochi e i molti diventano i primi e gli ultimi; nessuno sarà escluso ma “chi sa” è tenuto a “forzarsi di entrare per la porta stretta” e questa che si sta chiudendo, non ci sono garanzie che si possono vantare per la salvezza se non l’agire con e nella misericordia infinita del Padre.
(BiGio)