XXX Domenica PA - Lc 18,9-14

A una prima superficiale lettura la parabola sembra semplice e, partendo dal finale, porta a giudicare i due personaggi disprezzando uno (il fariseo) e prendendo le parti dell’altro (il pubblicano). Ma non è questo il suo obiettivo ...

Queste ultime domeniche sono state caratterizzate dall’invito alla preghiera o, meglio, all’ascolto costante e fiducioso della Parola del Signore che ne forma l’essenza. Questo perché ci mette in sintonia con il suo volere sempre ricco d’amore e misericordia che ci chiede di condividere, portandoci a guardare la nostra vita e la nostra storia con i suoi occhi per essere le sue mani, la sua voce. È questa la vita “spirituale”, cioè il vivere secondo lo “spirito”, ovvero la volontà di amore misericordioso.

Gesù invita a rivolgerci al Padre con insistenza ma questo non significa che la preghiera sia un mezzo per forzare Dio a fare la nostra volontà; è piuttosto l’invito a passare dall’insistenza alla perseveranza. La prima è petulante, la seconda una virtù che porta a sbarazzarci della monotona vuota ripetizione di formule che snervano sia chi le formula sia Dio stesso (Am 5,23). Non è nemmeno un “dovere”, è un dialogo continuo che porta ogni istante della nostra vita ad essere interprete della sua misericordia.

L’Evangelo di domenica scorsa si è chiuso, come risposta al nostro chiederci dove sia Dio in tutto quanto accade, con una sua domanda: “dov’è la vostra fede?”.

Oggi con un’altra parabola Gesù prosegue la sua “catechesi” chiedendoci di interrogarci su quale tipo di fede noi abbiamo e lo fa ponendoci difronte a due personaggi opposti nel loro modo di vivere e alla loro preghiera nella quale traspare una piena consapevolezza della loro realtà.

A una prima superficiale lettura la parabola sembra semplice e, partendo dal finale, porta a giudicare i due personaggi disprezzando uno (il fariseo) e prendendo le parti dell’altro (il pubblicano). Ma non è questo il suo obiettivo.

Se si analizza senza preconcetti, il fariseo ci viene descritto come una persona retta, onesta che osserva fedelmente la Legge nella sua integrità, pratica tutto quanto la religione chiede. Non solo: cerca anche di supplire con il suo agire quello che altri non fanno per poter far in modo che le benedizioni di Dio sul suo popolo non vengano meno. Per questo non si limita a digiunare una volta all’anno come prescritto (Lv 16,29), ma due volte la settimana e paga lui le decime che altri non versano su quanto producono (Dt 14,22-27) ma che, acquistandolo, viene in suo possesso.

Sembra l’immagine irreprensibile di tanti buoni cristiani dalla fede sincera che pure si chinano su chi ha bisogno supplendo o supportandoli nelle loro difficoltà o carenze. Come il fariseo sono capaci di moltiplicare le loro preghiere correndo il pericolo di diventare petulanti come si è visto domenica scorsa.

Anche il pubblicano è consapevole della propria realtà che, per il mestiere che svolge (per lo più facevano i gabellieri imbrogliando a proprio vantaggio e praticando lo strozzinaggio), non ha proprio nulla di cui vantarsi. Un personaggio da disprezzare e non certo con il quale convenga immedesimarsi. Inoltre le condizioni imposte dalla Legge perché potessero eventualmente “salvarsi”, erano così gravose da non poter nemmeno lontanamente essere soddisfatte, tanto che i rabbini erano concordi nell’affermare che per loro era praticamente impossibile.

Ambedue i protagonisti della parabola salgono al tempio e stanno in piedi davanti alla presenza del Signore che è l’atteggiamento comune tra due persone che dialogano nell’ascolto reciproco e questa è l’essenza della preghiera. 

Ma attenzione: se non si ricorda tutto il percorso che il Signore ci ha proposto fino ad oggi, se non si esce da un facile giudizio moralistico, ci sarà difficile comprendere e aderire alla sentenza finale trovandoci così spiazzati.

Per capire la domanda che ci si deve porre è su chi stia al centro dell’azione: non i due personaggi, ma Dio stesso. Si scoprirà così la differenza sulla quale Gesù vuole attirare la nostra attenzione.

Al centro della preghiera del fariseo non sta l’accoglienza dell’azione del Signore ricco di misericordia, il comprendere cosa Lui desideri, il cercare di realizzare la sua volontà, bensì il suo “io”, il suo ego. Il suo “fare” è certamente corretto ma autocentrato, basato unicamente sul compiere quanto la religione chiede. La sua immagine di Dio è quella di un contabile ed è convinto che alla fine dei suoi giorni la somma dei propri “meriti” gli porti la ricompensa dovuta. Mentre in quella del pubblicano, cosciente che non ha nulla da presentare, c’è solo la richiesta della misericordia del Padre alla quale si affida e che viene accordata rendendolo giusto.

Allora se domenica scorse l’invito è stato di non pensare di poter usare la preghiera per forzare la mano di Dio, oggi ci viene indicato che è l’azione del Padre che può renderci giusti, non certo il rispetto delle regole dettate dalla Religione. Queste sicuramente hanno un utile scopo propedeutico ma per condurci a quel dialogo con il Signore capace di guidare i nostri passi sulla sua e non la nostra volontà.

(BiGio)

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