XXIX Domenica PA - Lc 18,1-8

 La preghiera non può essere un modo per forzare Dio a fare la nostra volontà. Perché allora siamo invitati a rivolgerci a lui con insistenza? Innanzitutto è necessario togliere un possibile equivoco: il “giudice” della parabola non è Dio e poi l’invito è quello di passare dall’insistenza alla perseveranza. La prima è petulante, la seconda una virtù.



Domenica scorsa si è notato come ci sia un filo rosso negli Evangeli di queste Domeniche del tempo ordinario facilmente rintracciabile ed è l’invito alla preghiera o, meglio, all’ascolto costante e fiducioso della Parola del Signore che ne forma l’essenza. Questo perché ci mette in sintonia con il suo volere sempre ricco d’amore e misericordia che ci chiede di condividere, ci porta come si è sottolineato a guardare la nostra vita e la nostra storia con i suoi occhi, ad essere le sue mani, la sua voce. È questa la vita “spirituale”, cioè il vivere secondo lo “spirito”, la volontà di amore misericordiosa del Padre e non il viaggiare estatici a 20 centimetri da terra come spesso è stato tramandato come se il vivere disincarnati potesse proteggere da quel “mancare l’obiettivo” che è il peccato nel suo significato etimologico.

Nell’incontro di Gesù con i dieci lebbrosi nel suo cammino verso Gerusalemme sono emerse alcune caratteristiche: il non attendere ma l’andare incontro, il chiedere ad alta voce di essere visti nella nostra umanità e caducità, nell’adesione fiduciosa dell’invito a mettersi in cammino, il rendersi conto che questo cambia la nostra realtà che porta, sempre ad alta voce, a lodare Dio e a ringraziarlo per tutti i suoi benefici.

La Liturgia oggi insiste su questi aspetti introducendone altri in una cornice composta all’inizio dalla “necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai” e, al termine della pericope, con una domanda sulla permanenza della fede nei credenti. In effetti questi due punti sono inscindibili: il credere, il porre la nostra fiducia nel Signore porta l’esigenza di ascoltare la sua Parola nella preghierache innesta un dialogo profondo “faccia a faccia”. Nell’Esodo Dio nel rivelarsi fonda proprio questo dialogo: “IO sono il Signore Dio TUO” (Es 20,2). C’è un “Io” e un “tu” che pone i due soggetti uno di fronte all’altro e l’incipit dello Schemà invita “Ascolta Israele il Signore nostro Dio” (Deut 6,4). La Scrittura è intessuta di questo dialogo tra Dio e il suo popolo che giunge anche a momenti di confronto duro fino al rimproveralo “Tu sei per me un torrente infido” (Ger 15,18), ma pure ad abbandoni fiduciosi “Avvenga per me secondo la tua Parola” (Lc 1,38). Questi sono solo due esempi ma davvero sono infiniti.

Oggi la Liturgia ci presenta Gesù che insiste e ribatte il chiodo, meglio farlo quando è caldo sembra pensare. Lo fa sottolineando la necessità della costanza e della perseveranza con la parabola della vedova inopportuna verso un giudice insensibile che cede e le fa giustizia solo per interrompere il suo insistere.

Ma si era anche visto che la preghiera non può essere un modo per forzare Dio a fare la nostra volontà. Perché allora siamo invitati a rivolgerci a lui con insistenza? Innanzitutto è necessario togliere un possibile equivoco: il “giudice” della parabola non è Dio ed è una figura secondaria con la funzione di evidenziare una situazione di ingiustizia; l’attenzione va posta tutta sulla vedova.

La prima cosa che emerge è la sua fragilità: la vedova, l’orfano e lo straniero sono tre categorie di persone che Dio in Esodo 22,20-26 chiede di proteggere, di non sfruttare, di non opprimere, sono i più deboli che in quella realtà non hanno mezzi di sostentamento propri ed erano destinati ad essere abusati in ogni modo o costretti a mendicare.

Questa vedova, senza nome perciò siamo chiamati ad immedesimarci con essa, fa della sua fragilità la sua forza insistendo per avere giustizia fino allo sfinimento suo e del giudice, passando dall’insistenza che spesso è temporanea e ha una connotazione negativa perché fastidiosa, alla perseveranza che è la capacità di mantenere a lungo un'azione o un proposito nonostante le difficoltà incontrate, senza scoraggiarsi. La forza così trovata diventa saldezza nel persistere.

La vedova diventa allora l’immagine dei credenti e delle Comunità cristiane spesso tentati di abbandonare la preghiera perché “non produce nulla”, fa solo perdere tempo che può essere utilizzato meglio e più rimunerativamente. Questo accade quando si scambia la preghiera con la monotona ripetizione di formule che snervano chi le recita, il prossimo che le ascolta e anche Dio che si annoia certamente a sentirle se non sono espressione di un autentico sentimento del cuore (Am 5,23). Come spesso si confonde la “necessità” della preghiera, cioè del dialogo con il Signore, con una logica del “dovere” invece è semplicemente una necessità vitale che accorda, come si è più volte sottolineato, il nostro respiro e il nostro sguardo a quello di Dio. È ogni istante, ogni nostra azione interprete della misericordia del Signore che diventa “preghiera” fino a non distinguerle più e diventano quella “preghiera del cuore” così cara al mondo orientale e monastico.

La chiusa della pericope è una duplice domanda: a noi che spesso chi chiediamo dove sia Dio che non riusciamo a percepire al nostro fianco a risolvere i nostri problemi, lui risponde con una domanda: “Dov’è la vostra fede?”. A noi la risposta …

(BiGio)

 

 

 

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