1 novembre: Festa di tutti i Santi - Mt 5,1-12

Ogni 1 novembre si celebra la Festa di tutti i Santi e il pensiero va subito a quelli che, come viene detto, la Chiesa ha elevato agli onori degli altari ponendoceli come esempio da imitare o ai quali rivolgere preghiere e suppliche perché, intercedendo, sollecitino l’Altissimo a dar ascolto ai bisogni e alle necessità di aiuto dei viventi in questa nostra realtà. Ma non è questo che intende celebrare la Liturgia ...


Ma non è questo che intende celebrare la Liturgia proponendoci ogni anno l’Evangelo delle Beatitudini e dovrebbe venirci a mente che S. Paolo inizia le sue lettere rivolgendosi “Ai santi…” della Comunità alla quale scrive. 

Questo termine in ebraico ha due accezioni che possono essere condensate in un “essere messi a parte di una realtà”, quella che oggi ci viene proposta da Gesù chiedendoci di realizzarla, quella delle Beatitudini. Queste in genere si conoscono male e nella loro reale sostanza sono delle grandi sconosciute: per lo più ci si ferma alla lettera di un testo che invece ha un profondo retroterra biblico. Non si va oltre a partire da quel “beati i poveri” che, nella Scrittura, non significa coloro che non posseggono nulla, bensì quelli che non trattengono nulla per sé stessi. È “ricco” chi diventa altezzoso e non mette le proprie capacità a servizio degli altri, come non è “povero” chi maledice la sua situazione cercando di migliorare la sua realtà anche con la violenza o l’inganno disinteressandosi di chi calpesta facendo così.

A volte questa beatitudine è stata intesa e purtroppo proposta come un invito alla rassegnazione. È invece una chiamata alla speranza: nessuno più sarà bisognoso quando tutti diverranno “poveri in spirito”, quando tutti metteremo i doni ricevuti da Dio a servizio dei fratelli, come fa Lui stesso che, pur possedendo tutto non trattiene nulla per sé: è dono totale, è amore senza limiti (Fil 2,6).

Come pure i miti non sono i rassegnati alla loro condizione ma coloro che si rifiutano di ricorrere alla violenza per ristabilire la giustizia. Gesù si è presentato come “mite” (Mt 11,29; 21,5) non nel senso di debole, timido, pusillanime. Egli ha vissuto conflitti drammatici, ma li ha affrontati con le disposizioni di cuore che caratterizzano i “miti”: ha rifiutato l’uso della violenza, è stato paziente, tollerante, si è fatto servo di tutti. Fare giustizia per Dio non è punire i colpevoli, ma operare fin tanto che il malvagio diviene un “giusto” attraverso la sua misericordia che non è un sentimento di pietà, ma un’azione in favore di chi ha bisogno di aiuto.

In questa direzione va pure l’invito ad essere operatori di pace, a frapporsi fra i contendenti favorendo un cammino che porti attraverso il dialogo alla concordia.

Ma la parola “shalom” (=pace) nella Scrittura indica molto di più che la mancanza di un conflitto, indica il benessere totale, la pienezza di vita, l’armonia con gli altri e con se stessi, la prosperità, la giustizia, la salute, la gioia. A chi la opera viene riservata la più bella delle ricompense: Dio li considera suoi figli.

È necessario però avere coscienza che nella Scrittura questa “pace” è prima di tutto un dono di Dio da accogliere e che non si è mai finito di far propria fino in fondo. Non è, si è già detto, semplicemente assenza di conflitto; connota piuttosto uno stato o modo di essere sempre in divenire che non viene in noi attraverso lo sforzo personale, pratiche religiose, ma attraverso la persona del Signore. Quando il Risorto venne e “stette in mezzo” ai discepoli, fa una affermazione che non è un augurio ma un annuncio: “Pace a voi” (Gv 20,19). È il dono di una Presenza d’amore che attesta una riconciliazione avvenuta e una nuova piena comunione con il Padre che i discepoli non devono tenere per sé stessi, ma devono condividere e riconoscere ovunque, anche nelle situazioni più difficili o disperate.

Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi” aggiunge il Risorto mostrando le mani e il costato: cioè il suo modo di agire che la Comunità generata dal suo petto squarciato è chiamata a proseguire nel servizio gratuito. 

Accogliere il dono della pace e condividerlo significa agire perché la Verità e la Misericordia del Padre incontrandosi nella nostra realtà facciano fiorire la Giustizia e la Pace; due coppie di termini speculari e inscindibili (PS 84,11-13)

Scendendo nel concreto significa che non si è “operatori di pace” se si prende le parti di uno dei due contendenti, lo si è invece se ci si fa carico delle difficoltà che hanno portato i due al conflitto e si agisce per risolverle. Certo nella chiarezza dei ruoli che le due parti hanno nel conflitto, denunciando le ingiustizie e i soprusi che ciascuna ha compiuto altrimenti si alimentano solo i motivi di conflitto.

In un bel film “Scarlett” di Mamoru Hosoda, la protagonista riesce a diventare a sua volta operatrice di pace solo dopo essere riuscita a prendere coscienza e a perdonarsi di tutto l’odio che aveva fino a quel momento nutrito nei confronti dello zio che aveva ucciso suo padre. Questo grazie a un terzo personaggio che nel corso del film la affianca con mitezza e pazienza, facendosi carico dei problemi e dei bisogni di chi incontravano che man mano i due personaggi percorrevano i tortuosi percorsi della vendetta che portavano solo ad altra violenza. Questo è il ruolo chiesto ai cristiani e a tutti coloro che desiderano essere operatori di pace

(BiGio)

 

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