Non ci è dato sapere il tempo.
Ci è dato solo amare nel tempo.
(Mariangela Gualtieri)
Non è un caso che ogni anno la prima domenica di Avvento riprenda il tema della penultima domenica dell’Anno Liturgico precedente e che queste pongano l’accento sulla parusia ovvero sulla venuta nella gloria di Gesù alla fine del tempo. Come non è un caso che al centro, tra queste due domeniche, ci sia la Festa di Cristo Re centrata su un Evangelo che richiami o si riferisca alla sua morte in croce (in Marco e Luca) o al Giudizio finale (in Matteo). Il ruolo di questa Festa è appunto quella di fare da sintesi tra un cammino di conoscenza e invito alla sequela di Gesù secondo uno dei sinottici e l’avvio di un analogo percorso secondo lo specifico taglio dato da un altro evangelista.
Già questo dovrebbe avvertirci che l’Avvento non è teso tanto al Natale, quanto al ritorno del Signore nella gloria e che il tempo liturgico che inizia oggi tenta di ravvivare questa attesa e il grido che dovrebbe essere costante di tutti i cristiani “Maranathà, vieni Signore Gesù, ritorna presto”.
L’attesa allora si caratterizza come un periodo teso a preparare il futuro anticipandolo, sperandolo, invocandolo; non un tempo limitato ma che a partire da queste quattro settimane dovrebbe supportare ogni istante della vita e dell’agire dei cristiani. L’attesa non è un tempo morto come è facile pensare, bensì la preparazione del futuro intervenendo nel presente perché è la soglia tra la storia e la manifestazione in pienezza del Regno di Dio.
L’Evangelo di oggi si raccorda benissimo con quello di due settimane fa e il quadro è il medesimo: i discepoli che ammirano il Tempio di Gerusalemme in tutto il suo splendore e Gesù che afferma gelandoli: ”non rimarrà pietra su pietra che non sia distrutta”. Come nel brano di Luca anche qui torna l’invito ad essere attenti, ad ascoltare, a vigilare cioè a imparare a discernere i segni dei tempi, a cogliere i “suggerimenti”, ovvero il “giudizio” di Dio che giunge puntuale anche se spesso in modo e tempi inattesi. Infatti quando i discepoli gli chiedono “quando accadrà questo?” Gesù pare eludere la risposta in realtà offre un insegnamento che rimane attuale per gli uomini di ogni tempo e, per farsi capire cita tre esempi.
Certo, questa pericope oggi può lasciare perplessi, dare origine a interpretazioni stravaganti oppure si presta, come purtroppo è stato fatto e ancora oggi a volte accade, a cercare di sottomettere con la paura i semplici. Queste interpretazioni hanno origine dalla mancata comprensione del genere letterario “apocalittico” molto usato al tempo di Gesù, ma che è piuttosto alieno dalla nostra mentalità e cultura. Un principio va sempre tenuto presente: L’Evangelo è, per sua natura, buona notizia, annuncio di gioia e speranza. Chi se ne serve per incutere spavento e per creare angosce lo sta usando in modo scorretto, allontanandoci dal suo vero significato.
Gesù fa degli esempi partendo da un racconto biblico: Noè seppe discernere i segni dei tempi e si salvò mentre i suoi contemporanei lo deridevano. Non vi è nulla di riprovevole in quanto facevano “mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito”: è la quotidianità come anche quella dei due uomini che lavorano nei campi e delle due donne che macinano alla mola. Il problema non è il che cosa facevano o si sta facendo, ma il come. Vivere il quotidiano con noncuranza come una routine senza fine, porta ad essere inconsapevoli di quello che si fa e si finisce a non rendersi conto di nulla in una esistenza incosciente.
Noè non ha evitato il diluvio, ma ha saputo e potuto affrontarlo attraversandolo, i suoi contemporanei non si resero conto di nulla ed il “giudizio” è sul come hanno vissuto prima della catastrofe. Anche nella nostra vita, magari colpevolizzandoci, a volte ci troviamo a riflettere che se avessimo agito in un altro modo probabilmente le cose sarebbero andate diversamente ma, a quel punto è troppo tardi. Ogni nostro evento futuro è approntato nel presente, siamo chiamati a prepararlo coscientemente nel quotidiano. Nel caso dei due uomini (uno preso e l’altro lasciato) e delle due donne (una presa e l’altra lasciata) ciò che viene e verrà alla luce è il come hanno vissuto il loro presente.
In questo periodo liturgico siamo chiamati a ravvivare l'attenzione sull'attesa della venuta, o meglio del ritorno del Signore. Questo sarà il momento nel quale saranno svelate e gettate nel fuoco ogni ambiguità, ogni negligenza, ogni supponenza; saranno invece portate alla luce ogni attenzione a quanto ci circonda, ogni speranza fattivamente perseguita con costanza nella fiducia capace di farci uscire dall’inerzia e dall’insapore nei quali i gesti quotidiani ripetuti, le abitudini, le solite relazioni possono trascinarci.
Ecco allora il senso di quei tre imperativi finali: “vegliate”, “cercare di capire”, “siate pronti”: il Signore certamente verrà e sarà il natale di una nuova creazione nel segno del Regno del Padre. Maranathà, buon cammino.
(BiGio)
Nessun commento:
Posta un commento