Domenica scorsa Gesù è tornato ancora una volta sul tema della ricchezza che, nel nostro ego centrato solo sui nostri bisogni, ci rende ciechi agli altri e incapace di condividere. La parabola di Lazzaro e del ricco terminava di nuovo con l’invito all’ascolto della Parola, senza di questa capacità si corre il pericolo di trovarci in assenza della presenza di Dio nella nostra vita e, pur avendoli accanto alla nostra porta e incrociandoli quotidianamente per le scale o per strada, essere incapaci di “vedere” gli altri nella loro realtà, nei loro bisogni. Dio non è e non rimane mai indifferente a loro fino a porre nella loro identità il suo nome: Lazzaro non significa forse “Dio aiuta”?
In queste settimane poi Gesù ha prospettato un cammino difficile per i discepoli e per tutti coloro che pongono la loro fiducia in lui come anche noi: è necessario entrare per “la porta stretta” (Lc 13,24), essere disposti a “odiare” il padre e la madre per mettere lui davanti a tutto (Lc 14,26), rinunciare a tutti i propri beni (Lc 14,33), ed essere capaci di perdonare senza limiti e senza condizioni (Lc 17,5-6).
Se ci si confronta realmente con queste indicazioni qualche domanda chiunque dovrebbe porsela. Anche nell’Evangelo di Giovanni compare il disorientamento nel quale di può incorrere: “Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?” (Gv 6,60). Si può giungere a titubare e a temere di non farcela.
I discepoli e noi con loro dovremmo a questo però aver compreso che la fede non è il frutto di uno sforzo personale, non ha nulla che vedere con un cammino di ascesi. La fede è un dono di Dio che va accolto e poco ha a che vedere con un pacchetto di nozioni da sapere più o meno a memoria, a delle prassi e dei riti da compiere più o meno coscienti o convinti. La fede è un dono che porta con sé anche un compito. Era più facile comprenderlo in quel mondo semita il cui linguaggio non aveva i “concetti” ed era invece estremante concreto. Accogliere quel dono significa fare delle scelte concrete, il porre la propria totale fiducia in Cristo, aderire convintamente e fattivamente a un preciso “stile” di vita, ad agire come Lui fino a donare totalmente la propria vita che non significa “morire” per gli altri, ma giocare la propria vita fino in fondo per gli altri questo sì.
Se lo si comprende, se lo si vive realmente, è però ugualmente facile avere ogni tanto dei tentennamenti e giungere a chiedere come fecero i discepoli al Signore “Aumenta la nostra fede!”.
Come abbiamo notato, in queste sezioni dell’Evangelo Gesù è molto diretto, non le manda a dire, è duro nelle sue espressioni, a volte sembra anche brutale nel suo parlare. Va sempre alla radice dei problemi rifiutando compiti che, pur nel suo ruolo, avrebbe potuto svolgere come nel caso dell’eredità tra i due fratelli in lite.
Anche qui non risponde direttamente alla richiesta che gli è stata rivolta ma fa degli esempi che a prima vista possono anche lasciare interdetti. In fin dei conti coloro che lo stavano seguendo avevano lasciato tutto per farlo: la barca, il lavoro, la famiglia … e avevano riposto in lui tutta la capacità di fiducia che avevano. Perché apostrofarli dicendo “Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo sicomoro sradicati e vai a piantarti nel mare ed esso vi obbedirebbe”? Il sicomoro è una pianta che ha radici talmente profonde che è difficilmente sradicabile e il termine usato può certamente riferirsi anche a un gelso (come traduce la Cei) ma il sicomoro è più aderente all’immagine che Gesù vuole dare.
In realtà con questo desiderava rassicurarli: tutto è possibile per chi ha fede e, questa non ha nessuna “misura” o la si è accolta o meno. Se è sì nella dimensione prima indicato, nulla è impossibile. Certo, l’esempio che ha portato è una iperbole, ma se si appoggia realmente in Dio il nostro agire, tutto davvero può accadere. Oggi è facile pensare che le radici dell’inimicizia nei popoli in conflitto Palestina e Ucraina in primis siano talmente profonde che non potranno mai essere strappate e che la pace mai tornerà. Certo, appoggiare per un qualsiasi buon motivo una parte contro quell’altra non fa che aumentare l’odio: essere invece facitori, costruttori di pace significa operare caricandosi delle fatiche di ambedue le parti e lenirle. Questi sono i miracoli che in alcune esperienze proprio a cavallo di quei confini anche oggi operano ma è necessario riuscire a “vederle” ed alimentarle, sapendo poi dire: siamo semplici servi, non abbiamo fatto altro che il nostro dovere (più che “siamo servi inutili”) come chiude la parabola di oggi. Con questa Gesù intende sradicare l’idea della “religione dei meriti” che, in una certa spiritualità deleteria, si cerca di accumulare non comprendendo che anche questo è egoismo e riduce Dio ad un “ragioniere”.
Gesù non intende sottovalutare le opere buone, non disprezza il lavoro dell’uomo né assume un atteggiamento di supponenza nei confronti di chi si impegna a compiere il bene. Cerca piuttosto di liberare i discepoli da una forma di orgoglio pericolosa per loro e per gli altri: l’autocompiacimento.
(BiGio)
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