Domenica 14 settembre: "Festa dell'Esaltazione della S. Croce" - Gv 3,13-17

Due sono i simboli di vita: il serpente innalzato e il crocefisso, ambedue ridanno vita e non è a caso che sul monte Nebo la croce sia avvolta nelle spire di un serpente come anche nella basilica di S. Ambrogio a Milano al centro della navata centrale ci sono due colonne con sopra i due simboli. In fin dei conti il valore numerico delle lettere ebraiche che compongono la parola “serpente” è 358 come la parola “messia”.

 


Oggi si interrompe il normale cammino liturgico per fare spazio alla Festa dell’Esaltazione della Croce che quest’anno cade questa Domenica. Luca avrebbe portato alla nostra attenzione il pastore che va alla ricerca della pecora perduta, la ricerca della donna della dramma perduta e il padre che riaccoglie il figlio scapestrato che aveva lasciato la casa paterna. Queste parabole avrebbero precisato il messaggio di domenica scorsa che presentava le tre esigenti condizioni della sequela che non sono, nonostante le dure e decise espressioni di Gesù nel darle, il tentativo di distogliere dall’idea di iniziare a seguire le sue orme, ma parole di prudenza che invitano a fare bene i calcoli prima di intraprendere un’impresa che si potrà rivelare superiore alle proprie forze. Essere coscienti dei propri limiti è la sola via che consente di accogliere come dono la sequela nelle sue esigenze. Appare allora chiaro che questa non è opera dell’uomo ma di Dio che non ci lascia mai soli nelle difficoltà.

La terza condizione è l’invito ad essere disponibili a testimoniare la propria fede, la propria sequela fino in fondo sapendo che seguire l’esempio di Gesù porta a capovolgere i criteri di questo mondo e non possono non essercene conseguenze. Esserne coscienti e disponibili a subirle è importante fino a lasciarsi tutto alle spalle. La croce di Gesù è uno spartiacque, di fronte a questa c’è un prima e un dopo ed è proprio a volgere il nostro sguardo a questa (Gv 19,37b, Ez 12,10) che l’Evangelo di questa Festa che celebriamo oggi ci chiede di porre la nostra attenzione.

In origine i primi cristiani non avevano questa come simbolo considerata l’infame strumento di morte dei maledetti da Dio e dei banditi dalla società (Dt 21,22-23 e Gal 3,7-14). Venivano utilizzati altri simboli come l’àncora, il pastore con la pecora al collo e, ovviamente, il pesce che in greco (ΙΧΘΥΣ) è un acronimo che significa “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”.

È proprio a questo titolo che la breve pericope di oggi ci conduce a riflettere all’interno del dialogo di Gesù con Nicodemo costruito in controluce all’episodio di Numeri 21,8-9: gli ebrei che venivano morsicati dai serpenti velenosi, se alzavano e fissavano lo sguardo a un serpente di bronzo elevato al centro dell’accampamento, guarivano e rimanevano in vita.

Ugualmente, dice Gesù a Nicodemo, chiunque guarderà e crederà nel Figlio dell’Uomo innanzato avrà la vita eterna che non è un premio futuro post-mortem ma una condizione, una qualità di vita già nel nostro oggi perché credere in Gesù il Crocifisso è aderire alla sua persona, è tendere a poter dire a dire con Paolo “non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me” (Gal 2,20). Vivere cioè della sua stessa vita, con la pienezza umana risplendente in Gesù che trova la sua fonte nel suo essere il Figlio amato del Padre sceso dal cielo per mostrarci quale sia il volto di Dio. Un volto di amore, di misericordia; un amore gratuito, incondizionato che chiede di essere diffuso per poter manifestare le sue energie in chi vi fa spazio accogliendo nella fede come noi e le nostre Comunità.

Dietro al salire sulla croce sta proprio questo discendere dell’amore del Padre che non cerca nessuna reciprocità, non pretende alcuna gratitudine, rispetta la libertà dell’uomo, chiede solo di non essere tenuto gelosamente per se stessi ma di essere condiviso con tutti ovunque “Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri” (Gv 13,34). Come ogni dono può essere accolto o rigettato ma il rifiuto non sopprime il dono che permane e continua ad essere un appello alla fede.

Giovanni sottolinea che il dono del Figlio è volto a dare vita e non morte, a salvare e non a giudicare il mondo, tantomeno a condannarlo. Gesù lungo tutta la sua esistenza ha fatto dono della sua vita e così ha generato vita, ha trasmesso vita, l’ha continuamente suscitata fino ad essere “innalzato” perché tutti possano goderne appieno, guardando al suo dono totale per amore simboleggiato nella croce. 

Due sono i simboli di vita: il serpente innalzato e il crocefisso, ambedue ridanno vita e non è a caso che sul monte Nebo la croce sia avvolta nelle spire di un serpente come anche nella basilica di S. Ambrogio a Milano al centro della navata centrale ci sono due colonne con sopra i due simboli. In fin dei conti il valore numerico delle lettere ebraiche che compongono la parola “serpente” è 358 come la parola “messia”.

Il serpente di bronzo innalzato da Mosè salvava dal veleno dei morsi dei serpenti. Anche noi ci imbattiamo continuamente in serpenti che ci avvelenano la vita: l’egoismo, il potere, la smania di dominio, l’uso degli altri per raggiungere i nostri obiettivi ma se guardiamo quel volto innalzato che esprime il totale amore del Padre per il creato e l’uomo pronto ad accoglierci con le sue braccia tese verso ogni orizzonte e a chiunque, è l’antidoto per un modo che si rende conto di essere disumanizzato.

(BiGio)

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