Con Domenica scorsa l’Evangelo di Luca ha ripreso ad farci comprendere come Gesù abbia posto con forza attenzione alle problematiche del quotidiano, prestando molta attenzione all’uso dei beni e del denaro. Cerca di farci prendere coscienza come denaro e ricchezza possano ostacolare l’accoglienza della sua chiamata; possano far pensare di essere padroni della propria vita. Insomma, il denaro e la ricchezza possono pervertire il cuore dell’uomo.
Gesù però non condanna i beni di questo mondo in se stessi, quello che vuol farci capire è che l’unico modo scaltro di utilizzare i beni di questo mondo è servirsene per aiutare gli altri, acquisendo così la “vera ricchezza”, quella che non arrugginisce e non teme la tignola. È l’insegnamento della parabola proposta Domenica scorsa, quella dell’amministratore disonesto ma che reagisce in velocità alla difficoltà nella quale si viene a trovare: il licenziamento in tronco. Il suo agire si colloca all’interno dei criteri di questo mondo e la domanda che Gesù pone è se i credenti, i suoi discepoli, saprebbero agire con la stessa prontezza nell’adesione alla sequela che, come una spada a doppio taglio, penetra fino al midollo delle ossa e costringe a scegliere spesso rapidamente.
Oggi l’Evangelo riprende ed approfondisce a cosa può portare l’avere denaro e ricchezza. Non viene posto il tema su come questa si sia accumulata, se lecitamente o meno; il problema è che il ricco non condivide quello che ha ma trattiene per se stesso portandolo ad essere un malato terminale di egoismo.
Nel caso proposto oggi, il richiamo a Mosè e ai profeti, cioè all’intera Scrittura, pone al suo centro l’istanza che l’attraversa come un filo scarlatto: il saper vedere, ascoltare e aver cura del povero, dell’orfano, della vedova, di coloro che ci stanno affianco riconoscendo in questi un fratello.
Si tratta della parabola del ricco e Lazzaro, sono ambedue “figli di Abramo” tanto è vero che il primo gli si rivolge chiamandolo “padre” ma non solo in vita non si è mai accorto di Lazzaro, anche dopo la morte non considera non come un “fratello”, ma come un “servo”. Non è così raro: in fin dei conti i “poveri” normalmente li percepiamo come “inferiori” a noi stessi. Anzi lo è chiunque riteniamo o sentiamo inferiore a noi e, questo, dovrebbe interrogarci.
La povertà a volte si ritiene una conseguenza della pigrizia, dell’ozio o della sregolatezza come in Proverbi 24,33-24. Però i profeti capovolgono questa idea e si comprende come la ricchezza spesso non sia solo una benedizione divina, ma il frutto di ingiustizie. Anche il Qoèlet (5,11) e il Siracide (8,2) sono di questa opinione: l’oro corrompe e la sete di ricchezza non lascia dormire tranquilli. Gesù considera l’avidità e la ricchezza come degli ostacoli quasi insormontabili e chiama beati i poveri.
In questa parabola ci sono molti aspetti “strani”: il ricco viene condannato ma non ha fatto nulla di male se non un peccato di omissione nei confronti dei poveri rappresentati da Lazzaro. Anche quando Abramo gli rifiuta una goccia d’acqua non gli rinfaccia nulla. Perché allora aggettivarlo come “cattivo”? Siamo poi così sicuri che Lazzaro fosse “buono”? Cosa ci viene detto che ha fatto per meritarsi il paradiso? Nulla. Le sue piaghe non potrebbero essere la conseguenza di una vita dissoluta?
Ma se si continuasse in questa direzione non si giungerebbe da nessuna parte e si perderebbe il senso della parabola. Gesù considera pericoloso il dare per scontato che ogni disuguaglianza e la divisione tra ricchi e poveri siano inevitabili e che un rovesciamento della situazione avverrà solo alla fine dei tempi nel momento del giudizio. Tutto questo è contro il progetto di Dio. Ce lo dimostra anche quel momento della parabola nel quale il ricco nel suo tormento negli inferi alza gli occhi e, vedendo Abramo assieme a Lazzaro, grida “Padre Abramo, abbi pietà di me, manda…” abbi e manda: due imperativi, continua a comandare e prova ad “usare” Lazzaro: ora finalmente si è accorto di lui ma solo in vista del suo personale bisogno. Tra i due, risponde Abramo chiamandolo “figlio”, c’è un insuperabile abisso che li divide a parti invertite “ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali. Ora in questo modo lui è consolato”.
Fallito questo tentativo prova un’altra strada: “Allora, padre ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli...” di fatto continua, nel suo egoismo terminale, a considerare solo il suo clan familiare ricevendo una risposta secca “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. La risposta di Abramo è ferma e chiara: l’unica forza capace di staccare il cuore del ricco dai suoi beni è la Scrittura, la Parola di Dio.
Gesù sta invitando noi, a renderci conto che senza l’ascolto di quest’ultima, si corre il pericolo di ritrovarci solo centrati su noi stessi rendendoci incapaci di “vedere” gli altri nella loro realtà, nei loro bisogni. Dio non è e non rimane mai indifferente a loro fino, a porre nella loro identità il suo nome: Lazzaro non significa forse “Dio aiuta”?
(BiGio)
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