Questo termine in ebraico ha due accezioni che possono essere condensate in un “essere messi a parte di una realtà”, quella che oggi ci viene proposta da Gesù chiedendoci di realizzarla, quella delle Beatitudini. Queste in genere si conoscono male e nella loro reale sostanza sono delle grandi sconosciute: per lo più ci si ferma alla lettera di un testo che invece ha un profondo retroterra biblico. Non si va oltre a partire da quel “beati i poveri” che, nella Scrittura, non significa coloro che non posseggono nulla, bensì quelli che non trattengono nulla per sé stessi. È “ricco” chi diventa altezzoso e non mette le proprie capacità a servizio degli altri, come non è “povero” chi maledice la sua situazione cercando di migliorare la sua realtà anche con la violenza o l’inganno disinteressandosi di chi calpesta facendo così.
A volte questa beatitudine è stata intesa e purtroppo proposta come un invito alla rassegnazione. È invece una chiamata alla speranza: nessuno più sarà bisognoso quando tutti diverranno “poveri in spirito”, quando tutti metteremo i doni ricevuti da Dio a servizio dei fratelli, come fa Lui stesso che, pur possedendo tutto non trattiene nulla per sé: è dono totale, è amore senza limiti (Fil 2,6).
Come pure i miti non sono i rassegnati alla loro condizione ma coloro che si rifiutano di ricorrere alla violenza per ristabilire la giustizia. Gesù si è presentato come “mite” (Mt 11,29; 21,5) non nel senso di debole, timido, pusillanime. Egli ha vissuto conflitti drammatici, ma li ha affrontati con le disposizioni di cuore che caratterizzano i “miti”: ha rifiutato l’uso della violenza, è stato paziente, tollerante, si è fatto servo di tutti. Fare giustizia per Dio non è punire i colpevoli, ma operare fin tanto che il malvagio diviene un “giusto” attraverso la sua misericordia che non è un sentimento di pietà, ma un’azione in favore di chi ha bisogno di aiuto.
In questa direzione va pure l’invito ad essere operatori di pace, a frapporsi fra i contendenti favorendo un cammino che porti attraverso il dialogo alla concordia.
Ma la parola “shalom” (=pace) nella Scrittura indica molto di più che la mancanza di un conflitto, indica il benessere totale, la pienezza di vita, l’armonia con gli altri e con se stessi, la prosperità, la giustizia, la salute, la gioia. A chi la opera viene riservata la più bella delle ricompense: Dio li considera suoi figli.
È necessario però avere coscienza che nella Scrittura questa “pace” è prima di tutto un dono di Dio da accogliere e che non si è mai finito di far propria fino in fondo. Non è, si è già detto, semplicemente assenza di conflitto; connota piuttosto uno stato o modo di essere sempre in divenire che non viene in noi attraverso lo sforzo personale, pratiche religiose, ma attraverso la persona del Signore. Quando il Risorto venne e “stette in mezzo” ai discepoli, fa una affermazione che non è un augurio ma un annuncio: “Pace a voi” (Gv 20,19). È il dono di una Presenza d’amore che attesta una riconciliazione avvenuta e una nuova piena comunione con il Padre che i discepoli non devono tenere per sé stessi, ma devono condividere e riconoscere ovunque, anche nelle situazioni più difficili o disperate.
“Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi” aggiunge il Risorto mostrando le mani e il costato: cioè il suo modo di agire che la Comunità generata dal suo petto squarciato è chiamata a proseguire nel servizio gratuito.
Accogliere il dono della pace e condividerlo significa agire perché la Verità e la Misericordia del Padre incontrandosi nella nostra realtà facciano fiorire la Giustizia e la Pace; due coppie di termini speculari e inscindibili (PS 84,11-13)
Scendendo nel concreto significa che non si è “operatori di pace” se si prende le parti di uno dei due contendenti, lo si è invece se ci si fa carico delle difficoltà che hanno portato i due al conflitto e si agisce per risolverle. Certo nella chiarezza dei ruoli che le due parti hanno nel conflitto, denunciando le ingiustizie e i soprusi che ciascuna ha compiuto altrimenti si alimentano solo i motivi di conflitto.
In un bel film “Scarlett” di Mamoru Hosoda, la protagonista riesce a diventare a sua volta operatrice di pace solo dopo essere riuscita a prendere coscienza e a perdonarsi di tutto l’odio che aveva fino a quel momento nutrito nei confronti dello zio che aveva ucciso suo padre. Questo grazie a un terzo personaggio che nel corso del film la affianca con mitezza e pazienza, facendosi carico dei problemi e dei bisogni di chi incontravano che man mano i due personaggi percorrevano i tortuosi percorsi della vendetta che portavano solo ad altra violenza. Questo è il ruolo chiesto ai cristiani e a tutti coloro che desiderano essere operatori di pace
(BiGio)


