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Che servizio hanno reso davvero a Venezi i suoi promotori?

Nella vicenda della nomina di Beatrice Venezi alla direzione musicale della Fenice c’è qualcosa che merita di essere messo più a fuoco della volontà politica, che è chiarissima: il maschilismo implicito con cui è stata imposta, raccontata e difesa la sua figura.


Tanto è stato detto e scritto sia sulla nomina imposta senza confronto con l’orchestra che sulla scelta lontana dai criteri di competenza ed esperienza per un incarico del genere.

Di fronte al dissenso di tutte le fondazioni liriche, orchestre, teatri e conservatori, il sottosegretario alla cultura Mazzi, anziché tutelare il valore delle istituzioni culturali, ha scelto di fare il bullo con coloro che dovrebbe rappresentare.  
Mazzi ha gestito il dissenso in una logica propagandistica, arrivando a sostenere che grazie al "dibattito" su Venezi si parla di opera su tutti i giornali.
Anche di Garlasco si parla moltissimo. Ma non risulta sia mai stato un vanto per nessuno. Evidentemente per Mazzi il clamore vale più della competenza.

Ma in questo "dibattito", oltre al metodo e al merito, anche il linguaggio è rilevante, perché evidenzia una retorica machista, paternalista e maschilista.  

Mazzi chiama Colabianchi "eroe".
Colabianchi chiama Venezi "ragazza", riducendo a diminutivo l’identità di una professionista. 
Il ministro Giuli la definisce "principessa che farà innamorare gli orchestrali", come se a contare fossero grazia e immaginario da favola, non competenza ed esperienza. È lo stesso vecchio copione di sempre: celebrare le donne solo se rientrano in uno schema che rassicura il potere maschile.

Così Venezi è diventata da un lato emblema inconsapevole di una femminilità addomesticata e funzionale: giovane, telegenica, gestibile. Dall'altro la sua immagine è passata nel tritacarne dei social uscendone come meme ridicolo e sessista.  

L'ostinazione politica a confermare la sua nomina alla Fenice non la rafforza: la espone, la isola, la svuota di legittimità.
L’impressione è che più che promuoverla, il governo l’abbia sacrificata per usarla come vessillo ideologico. Invece di accompagnarne la crescita, l’ha spinta in un ruolo da cui è difficile uscire bene. Il risultato è una narrazione distorta, che fa danno non solo a lei, ma a tutte le donne che faticano ogni giorno a vedersi riconosciute per ciò che sanno fare, non per come appaiono o per quanto sono “brave ragazze”.

La "principessa" Beatrice Venezi, lungi dall'essere una martire, è comunque stata infantilizzata, sminuita e delegittimata proprio da coloro che intendono proteggerla. 
Non le resta ora resta che una scelta difficile ma necessaria: quella di affrancarsi da chi l’ha usata, e provare a costruire in autonomia il proprio spazio, con la propria voce. Quella di fare un passo indietro rispetto alla Fenice, dove qualunque dialogo con i lavoratori e le lavoratrici è ormai compromesso. 
Sarebbe un gesto di forza e dignità per sé, ma anche per la cultura. 

Non c'è rispetto  se una donna viene usata come strumento di propaganda politica. Non c'è rispetto se viene trasformata in simbolo da difendere a spada tratta, senza ascoltare la realtà in cui deve operare.  
Una cultura realmente egualitaria si costruisce anche così: restituendo alle donne la libertà di parlare in prima persona, di scegliere i propri tempi, di affermarsi per merito e non per investitura.

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