Il compito che da Gesù ai 72 discepoli, è quello di preparargli la strada, di aiutare chi incontrano per la via ad essere pronti ad accogliere il Signore nella loro vita che passa dopo i discepoli, non prima. Sta poi a lui “convertirli” e farli diventare suoi discepoli. Se nella storia i cristiani avessero compreso che questo, quanti disastri non sarebbero stati compiuti.
Iniziato questo tratto dell’anno liturgico che ci condurrà alla Festa di Cristo Re con due feste nelle quali prima è stata riassunta l’identità di Dio (Festa SS. Trinità) e poi quella della Comunità dei credenti che, partecipando al Pane Unico, diventano il Corpo del Signore e vengono così inviati ad essere la sua presenza tra gli uomini. Domenica scorsa, nella Festa di S. Pietro e Paolo, l’attenzione è stata posta su tutti coloro ai quali viene riconosciuto e chiesto di svolgere il carisma di suscitare e presiedere all’unità nella carità.
In questo quadro l’Evangelo di oggi sviluppa l’invio in missione dei discepoli sulle strade del mondo da parte di Gesù, i compiti assegnati, lo stile dell’annuncio, le sue modalità e la riconsegna al Signore di quanto realizzato.
Innanzitutto i discepoli ad essere inviati sono 72, numero che la Genesi afferma essere il numero dei popoli presenti sulla terra. Questo a dirci che non c’è un solo popolo al quale viene affidato l’annuncio del Regno già presene in mezzo a noi, ma chiunque abbracci la fede in Gesù il Cristo ne è il portatore; nessuno ne è escluso e tutti fanno parte di quella “moltitudine immensa di ogni nazione, razza, popolo e lingua” che sta “in piedi davanti al trono dell’Agnello” (Ap 7,9).
Poi sono inviati a coppie: l’annuncio dell’Evangelo non affidato a singole persone, non è opera individuale ma, per quanto piccola, di una comunità che si sostiene a vicenda, testimonia e conferma la testimonianza di ciascuno. Fin dagli Atti degli Apostoli questa prassi è documentata e coloro che venivano mandati non parlavano a titolo personale ma sentivano di rappresentare la loro Comunità (At 8,14 – 13.1). Questa modalità di seppur minima comunità, rappresenta per gli inviati la reciproca garanzia che non si cerchi vie personalistiche per emergere, di garantirsi un futuro, di farsi servire invece che di servire, giudicare.
Il compito che da a loro Gesù, è quello di preparargli la strada, di aiutare chi incontrano per la via ad essere pronti ad accogliere il Signore nella loro vita che passa dopo i discepoli, non prima. Il loro compito è quello di raddrizzare i sentieri, riempire le buche, abbassare i colli (IS 40,3-5) che nella vita di ciascuno possono essere d’intralcio all’incontro con il Signore. Poi sta a lui “convertirli” e farle in modo che chiedano il battesimo per essere suoi discepoli. Se nella storia i cristiani avessero compreso che questo, quanti disastri non sarebbero stati compiuti.
L’invito a pregare il Padrone delle Messi, non significa delegare al Padre il compito di risolvere il problema di chi deve spianare la strada alla salvezza, ma quello di chiedergli di garantire che ogni discepolo non debordi dalla sequela, non scada nell’orgoglio della presunzione, rimanga capace di superare le delusioni, gli insuccessi e invece rimanga perseverante in quel compito affidato e assunto al quale tutti i battezzati sono chiamati.
Lo stile della missione, seguendo l’immagine e l’esempio di Gesù, è quella dell’agnello, non dei lupi cioè della presunzione di chi sa già tutto fino alla violenza, sapendo che quella verbale uccide più della spada. Anche gli strumenti da usare sono importanti: non il denaro, gli appoggi di amici influenti, la tentazione di competere con i poteri forti, rinunciando alle sicurezze umane, confidando solo sulla forza della Scrittura.
L’essere in missione corrisponde alla sequela che per ogni discepolo è una sfida contro se stesso che dura l’intera vita nel tentativo di corrispondere sempre più all’immagine del Cristo fino a poter dire con Paolo “non sono più io che vivo ma Cristo che vive in me!” (Gal 2,19-21) e, alla fine della vita, “ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede” (2Tim 4,7-9)
Ma cosa annunciare? la pace. Non il vivere tranquilli e sereni, non l’assenza di conflitti personali, non l’assenza di guerre: queste sono faccende riguardano noi uomini e dobbiamo sbrigarle da soli. La “pace” che ci viene chiesto di annunciare è la riappacificazione tra Dio e l’umanità avvenuta attraverso la vita-passione-morte-risurrezione del Cristo, è l’avvento del suo “regno” che è già tra di noi e al quale ci viene chiesto di dare corpo. È questa che offre la capacità di “curare” (non “guarire” come traduce erroneamente la Cei) i malati, non tanto quelli “fisici”, ma quelli posseduti dai “demoni” (che scoprono sottomettersi loro nel nome del Signore) o dagli “spiriti immondi” (Mc 5,1-10), cioè dall’egoismo, dall’orgoglio, dalla presunzione di poter fare tutto da soli.
Per questo per la missione non basta avere pochi mezzi, occorre essere poveri, non basta proclamare il Regno di Dio, occorre essere uomini di Dio, non basta annunciare la pace, occorre essere operatori di pace nell’affidamento totale al Signore nel quale si potrà sperimentare la protezione che ci accorda: “Nulla potrà farvi del male”. Solo così potrà manifestarsi la potenza dello Spirito di Dio. Per questo per ultima cosa Gesù dice “Rallegratevi, non tanto per i vostri successi”, “«Rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli»”, cioè l’esperienza di sentirsi amati da Dio, nel partecipare già al suo Regno che, in questo modo, siete riusciti a porre qualche pietra.
(BiGio)
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